domenica 11 ottobre 2009

In un'altra vita

Se chiudo gli occhi riesco ancora a sentire il rumore dei miei passi, le mie scarpe da ginnastica sulle pozzanghere.
E se mi concentro riesco ancora a sentire qualche odore. Quello di fish&chips agli angoli delle strade, quello dei sandwiches del mio pranzo, quello della terra bagnata di pioggia, quello dell'erba fresca dei prati.
E i rumori. E i nomi delle strade. E le facce, alcune.
Camminavo tutte le mattine per un chilometro e mezzo con l'invicta sulle spalle e la testa bassa, contando le mattonelle del marciapiede. Se dovessi fare adesso quella strada avrei tanti pensieri ad accompagnarmi. Ma allora no, i pensieri non c'erano, c'erano solo le mattonelle del marciapiede, e una strada da attraversare, guardando prima a destra e poi a sinistra, andando contro gli istinti innati e gli insegnamenti radicati in diciotto anni di attraversamenti pedonali.
A volte anzichè contare le mattonelle del marciapiede ascoltavo il walkman con le cuffie. Portavo con me il walkman, due stilo di ricambio e una penna bic per riavvolgere il nastro, per non scaricare le batterie. Ascoltavo Gianluca Grignani e Vasco. E alcune volte addirittura pensavo, in inglese.
Pensavo alla lezione da ripassare, all'autobus da prendere, alla serata che mi aspettava. Ai ragazzi che avrei conosciuto.
Non so se quella mattina contavo le mattonelle, o ascoltavo musica, o pensavo, so soltanto che la lezione ormai era saltata. E so che c'era il sole e le pozzanghere emanavano una specie di profumo di primavera, di maggio.
E la piazza sembrava Babilonia. Non so come fosse Babilonia, non ricordo di essere mai stata particolarmente attenta alle lezioni di catechismo ma immaginavo Babilonia come una piazza con una torre (la torre di Babele, non so se Babele e Babilonia avessero qualche legame) e tante persone che parlavano lingue diverse tra loro.
Ecco io mi trovavo in un posto simile alla mia idea di Babilonia. E l'unica persona che parlava la mia lingua era un ragazzino, un bambino. Un bambino che sorrideva.
La prima volta che vidi quel sorriso pensai che forse quel bambino aveva bisogno di un apparecchio per i denti.
Poi mi sorrise di nuovo, dopo qualche tempo, e pensai che era perfetto e non aveva bisogno di niente.
Forse io avevo bisogno di qualcosa, di quell'incontro, di quel ritardo, di quel bambino, di quel sorriso.
Di quel ricordo da sepellire e da dimenticare e da riportare su una spiaggia in un' altra vita.